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A trent’anni dall’assassinio di Andrea Tamburi non c’è pace e non c’è giustizia

Trent’anni fa, il 27 febbraio 1994, Andrea Tamburi venne ucciso per amor di verità. Toscano, radicale, pacato, teneva alla sua vita e credeva che una matita possa essere un’arma, la gentilezza misura del vigore delle proprie opinioni.

Forte del potere della libertà andò a Mosca per documentare la Storia e per sostenere le idee democratiche dopo la caduta del Muro di Berlino. Si accorse ben presto che ad una dittatura se ne stava sostituendo un’altra, crudele, disumana e denunciò la (allora) contenibile ascesa di un importante funzionario del KGB votato alla politica, che utilizzava metodi discutibili, un uomo spietato di cui si sapeva poco.

Andrea Tamburi partì per l’ultima volta dall’Italia in inverno, quando a Roma le foglie dei platani si scuotono dai rami per accogliere la luce che risorge. Andò in Russia con lo sguardo di un condannato a morte, sparì per sempre in un ospedale moscovita, dei report che stava compilando nessuna traccia.
Le autorità russe dissero di non sapere dove fosse, poi affermarono che era stato vittima di un incidente stradale, il traffico a Mosca è tanto caotico!

Le e i parlamentari Emma Bonino, Marco Taradash, Paolo Vigevano, Lorenzo Strik Lievers, Elio Vito e Giuseppe Calderisi ne chiesero conto, la Farnesina mise in moto i suoi efficienti meccanismi.
Dopo insistenti richieste, Andrea Tamburi venne ritrovato in uno dei nosocomi in cui lo si era cercato più e più volte. Il Tribunale di Firenze, eseguita l’autopsia, affermò che le contusioni sul suo corpo non erano compatibili con quelle provocate da un incidente stradale. Le cause del decesso sono ancora oggi oscure. Qualche anno dopo, il 16 ottobre del 2000, anche il radicale-giornalista Antonio Russo subì una sorte simile, anche lui aveva raccolto materiali mai più ritrovati.

Voci libere messe a tacere, due gocce tra le tante imbavagliate da un regime la cui violenza è sempre più manifesta.

Andrea Tamburi era un uomo di sinistra ma la rigidità del PCI gli stava stretta, cominciò a frequentare il Partito Radicale durante la battaglia contro la fame nel mondo in cui Marco Pannella, alla fine degli anni ’70 del Novecento, chiedeva azioni concrete per combattere la povertà, specialmente in Africa, sia per seguire un principio umanitario sia perché immaginò che persone affamate fino alla morte si sarebbero presto riversate sulle coste italiane, anche se all’epoca sembrava un’idea bislacca: l’Italia era un Paese di emigranti. Cruciale fu la decisione dello storico leader radicale, notoriamente anticlericale, di portare la marcia contro la fame nel mondo fino al Vaticano, in Piazza San Pietro, per includere in un dialogo positivo anche il composito mondo cattolico e cristiano verso il raggiungimento di obiettivi comuni.
Aderì alla coraggiosa battaglia contro il servizio militare obbligatorio, che portò nelle carceri militari i primi obiettori di coscienza, tra cui Roberto Cicciomessere. Volle essere parte del cambiamento in atto nell’Europa dell’Est, si batté al fianco dei movimenti democratici di Paesi quali la Repubblica Ceca e la Slovacchia – allora Cecoslovacchia – e la ex Jugoslavia insieme, tra gli altri, a Marino Busdachin, Roberto Giachetti, Mariateresa Di Lascia, Olivier Dupuis.

Andrea Tamburi e i suoi compagni erano convinti che l’Unione europea sarebbe stata concreta idealità soltanto con l’inclusione dei Paesi dell’allora blocco sovietico, da cui venne spesso espulso come sovversivo. Molti pensano che se fossero state ascoltate le richieste radicali per l’ingresso della Jugoslavia in Europa, le guerre dal 1991 al 1999 non avrebbero avuto luogo.

Raccolse materiale per l’incriminazione di Slobodan Milosevic, con follia visionaria di chi credette nell’utopia del diritto penale internazionale, ma non ebbe il tempo di vedere il dittatore serbo dietro le sbarre dell’ICTY a L’Aja.

Con dedizione un po’ mistica, cercò di portare le battaglie nonviolente nei Paesi dell’Est e poi partì per Mosca.

Costituire la sede di una ONG era un’impresa importante, difficile, al limite dell’impossibile. La Russia in quei tempi era nel caos, il turbocapitalismo stava insidiandosi nei gangli della corrotta società non più comunista, i funzionari del PCUS morivano, soccombevano oppure diventavano potenti oligarchi. Come nell’alto Medioevo, vigeva la legge del più forte, bande armate e signorotti senza scrupoli si impadronivano velocemente del Paese più grande del mondo, tra le strade droga, armi, alcol, mafie, lusso e prostituzione si alternavano ad esplosioni, spari, estrema povertà e desolazione.

Parlare di diritti umani in quella situazione era alquanto pericoloso. Compilare report che sarebbero arrivati all’opinione pubblica internazionale era impensabile. Far parte di una organizzazione non governativa costituiva un enorme rischio. La maggior parte degli oligarchi non dava troppo peso alle parole di un idealista ma c’era chi non gradiva la presenza di osservatori occidentali, il sorriso luminoso degli occhi di quel toscano che parlava di libertà con gentilezza spaventò più dell’arroganza di un criminale comune.

Andrea Tamburi era convinto che la Russia è un grande Paese, non soltanto per estensione geografica, voleva sostenere le voci democratiche, dare forza a chi sperava nella transizione pacifica. Le dittature non amano il dissenso, le matite, la nonviolenza, i capelli sciolti, la sessualità. Gerarchi e duci hanno paura di colori e musica, delle persone che parlano tra loro, della gentilezza e ad un fiore oppongono il cannone.

Non visse abbastanza per assistere al trionfo politico dello zar né al declino in carcere del serbo Milosevic, non ebbe il tempo di vedere l’Unione Europea includere al proprio interno nazioni considerate lontane, né la guerra in Ucraina che probabilmente non ci sarebbe stata se le voci europeiste fossero rimaste vive, se fosse stata accolta l’ipotesi dell’inclusione nell’UE.