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Carceri, la tentazione di (ri)chiudere tutto dove servono risorse, idee e non repressione

SAREBBE IMPENSABILE NEL 2023 IMMAGINARE CHE I DETENUTI “ORDINARI” SIANO COSTRETTI IN CELLA GIORNO E NOTTE

di Alessandro Capriccioli pubblicato su Il Dubbio del 4 luglio 2023 

“La folle scelta della vigilanza dinamica”. Questa, secondo il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria del Lazio, la causa principale della maxi-rissa tra detenuti scoppiata qualche giorno fa a Regina Coeli. Non, dunque, il precario – per usare un eufemismo – stato strutturale dell’istituto, non il sovraffollamento, non le condizioni ambientali e la carenza di risorse umane e materiali che rendono sempre più complicata – non soltanto per i detenuti, ma anche per gli operatori – la possibilità di una vita dignitosa all’interno di un istituto di pena concepito la bellezza di un secolo e mezzo fa: la causa di tutti i mali sarebbe la sorveglianza dinamica, ossia il regime introdotto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel 2013, che consiste nell’apertura delle celle per i soggetti detenuti in media e bassa sicurezza  per almeno otto ore al giorno e fino a un massimo di quattordici, con la conseguente possibilità dei detenuti stessi di muoversi all’interno della propria sezione, e auspicabilmente anche al di fuori di essa.

Chi frequenta le carceri sa bene che questa modalità di esecuzione della pena non equivale certo a un “liberi tutti”, ma risponde all’assai più modesto e ragionevole intento di rendere la permanenza negli istituti penitenziari più umana e dignitosa: laddove sarebbe obiettivamente impensabile, nel 2023, immaginare che la generalità delle popolazione carceraria “ordinaria” possa essere costretta a vivere chiusa nella propria cella per tutto il giorno e per tutta la notte, con la sola eccezione delle attività trattamentali e delle ore riservate al “passeggio” negli – spesso asfittici, e senz’altro asfittici a Regina Coeli – spazi esterni degli istituti.

Eppure, a quanto pare, la tendenza è proprio questa: se è vero, com’è vero, che già l’anno scorso una circolare del Dap invitava a limitare “la libertà di movimento e di stazionamento delle persone ristrette all’interno della sezione”, e che oggi il sindacato di polizia penitenziaria arriva a chiedere esplicitamente che la sorveglianza dinamica e il regime delle celle aperte vengano abbandonati.

Badate: qua non si tratta semplicemente di discutere – o meglio, di ridiscutere, visto che siamo di fronte a un’inversione di marcia bella e buona – la condizione materiale in cui versano le persone – cosa che già di per sé sarebbe tutt’altro che inutile -, ma di ragionare su quale concetto di “sorveglianza”, nel 2023, si ritiene non soltanto umanamente accettabile, ma anche – e soprattutto – razionale ed efficace. Questa, in effetti, era la finalità che si perseguiva con l’innovazione sancita dal Dap dieci anni fa: sostituire progressivamente a un paradigma di controllo “statico”, basato sul mero contenimento fisico, un modello fondato sull’osservazione e sulla conoscenza delle persone, cosa che implica necessariamente un potenziamento dell’offerta trattamentale e un efficace flusso informativo tra le diverse figure professionali che operano nelle carceri. Ossia, in una parola, una detenzione più umana, più utile, più sensata, finalizzata al conseguimento della tanto spesso citata – quanto altrettanto spesso irrealizzata – finalità “rieducativa” sancita dall’articolo 27 della nostra Costituzione.

Tutto questo, naturalmente, diventa concretamente possibile qualora si decida di investire nel carcere risorse economiche e umane: aumentando il personale e qualificandone le competenze, adeguando le strutture agli standard minimi richiesti per un loro efficace funzionamento, impiegando tempo e attenzione all’elaborazione di percorsi trattamentali efficaci che possano riempire di senso la permanenza in carcere anziché svuotarla, come oggi avviene fin troppo spesso, di qualsiasi costrutto.

Capisco che, specie per chi è costretto a lavorare in condizioni complicatissime e nell’indifferenza pressoché totale delle istituzioni, sia difficile ammettere che sia proprio questo vuoto di senso la causa principale non soltanto dei disordini che di quando in quando si verificano un po’ in tutto il paese, ma anche dei suicidi, degli atti di autolesionismo, delle aggressioni e più in generale dello stato di tensione continuo che chiunque sia stato in carcere conosce fin troppo bene: e dunque che la tentazione immediata sia quella di tornare indietro, di chiudere, di costringere, di blindare. Ma a cosa potrebbero condurre questi giri di vite, se non a ulteriori tensioni, ad altri disordini, a nuove situazioni di “emergenza”? Come potremo immaginare di affrontarle, quando avremo già chiuso tutto il possibile e non saranno rimasti altri spazi da ridurre? Dove ci può portare questa deriva, se non al compimento di un disastro annunciato?