Articolo di Massimiliano Iervolino, segretario di Radicali Italiani
È terminata la COP 27 di Sharm El-Sheikh, dopo che i negoziati fra circa 200 paesi si sono protratti fino alle prime ore del mattino. Quali risultati ha partorito questa maratona notturna su come contenere la crisi climatica? L’alba del Mar Rosso proietta molte ombre e un solo spicchio di luce sulle sorti della lotta ai cambiamenti climatici. Partiamo dall’unica fonte di luce – per altro solo “riflessa” al momento e che potrebbe non riuscire a schiarire più di tanto l’orizzonte, se il passato deve fare da esempio.
Luce
La luce, ancora molto lontana in fondo al tunnel, è quella rappresentata dall’accordo di principio fra le regioni ricche del globo sulla creazione di un fondo destinato a coprire le perdite e i danni causati dai mutamenti climatici nei Paesi più poveri.
È una novità assoluta perché, finora, i Paesi ricchi si erano sempre rifiutati anche solo di accettare la premessa di una loro responsabilità vagamente risarcitoria, che temevano avrebbe aperto le porte a infiniti e costosissimi contenziosi. È invece qui passato il principio che in qualche modo le nazioni ricche devono farsi carico dell’assistenza finanziaria alle nazioni povere colpite dai disastri climatici. L’accordo sottolinea che i pagamenti non devono essere visti come un’ammissione di responsabilità.
Durante la conferenza, l’Unione Europea prima e gli Stati Uniti poi hanno insomma fatto inversione di marcia rispetto a 30 anni di dinieghi, accettando in linea di principio la creazione di questo fondo, a condizione che le grandi economie e i grandi emettitori, ancora classificati come Paesi in via di sviluppo – cioè soprattutto la Cina – siano inclusi come potenziali donatori ed esclusi o relegati in fondo alla fila come destinatari. Ciò vorrebbe dire che i Paesi più poveri e vulnerabili avranno priorità di accesso ai fondi, mentre Paesi ancora classificati come in via di sviluppo potranno contribuire, però su base puramente volontaria.
L’accordo prevede che il prossimo anno un comitato di 24 Paesi definisca i dettagli del fondo, le nazioni e le istituzioni finanziarie che dovranno contribuire e la destinazione del denaro, con molti altri dettagli ancora da chiarire.
Un’inversione di principio storica quindi. Vedremo se dai princìpi scaturiranno delle azioni. La speranza è l’ultima a morire, ma lo scetticismo è d’obbligo, viste le promesse non del tutto mantenute del passato. Più di 10 anni fa, infatti, i Paesi ricchi del mondo si erano impegnati a stanziare 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020 e fino al 2025 a favore dei Paesi poveri per progetti di adattamento e mitigazione del clima.
Al 2020, su 500 miliardi di dollari che dovevano essere stanziati in cinque anni ne erano stati versati circa 374, pari più o meno a tre quarti della cifra prevista, secondo l’Ocse. Non malissimo, si potrà dire. Il problema è che, secondo la maggior parte delle stime, 100 miliardi di dollari l’anno sono ormai largamente insufficienti per aiutare i Paesi poveri a contrastare i peggiori effetti del cambiamento climatico, per non parlare dell’abbandono delle fonti fossili. Si parla ora, infatti, di 5-10 trilioni, non di miliardi di dollari l’anno. Se i Paesi ricchi non hanno voluto o potuto mantenere le promesse del passato, cosa succederà a promesse future di un ordine di grandezza più impegnative e che vedranno la luce, se tutto va bene, non prima di un anno e comunque sempre solo sulla carta?
Ombre
Su tutti gli altri fronti di negoziato non solo non si sono fatti passi avanti, ma si è dovuto addirittura lottare per mantenere gli impegni e gli obiettivi fissati nelle precedenti COP, cioè per non tornare indietro. Secondo Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea, alcuni Paesi hanno cercato di scardinare l’obiettivo degli 1,5° C e di abolire il requisito stabilito a Glasgow per cui i Paesi devono aggiornare ogni anno i loro piani sulle emissioni. Timmermans ha detto che l’accordo di Sharm El-Sheikh non è sufficiente per ridurre le emissioni, sottolineando che il linguaggio è troppo debole. “Siamo stati tutti insufficienti”, ha affermato.
Alok Sharma, presidente britannico della precedente COP 26, ha evidenziato gli impegni che sono stati rimossi dal comunicato finale di Sharm El-Sheikh per volere dei Paesi ritardatari e dei produttori di combustibili fossili: “Il raggiungimento del picco delle emissioni entro il 2025 non fa parte di questo testo. Portare a compimento la riduzione graduale del carbone non è in questo testo. La riduzione graduale di tutti i combustibili fossili non è in questo testo”, ha detto a The Guardian.
Anche una proposta dell’India, che prevedeva la riduzione graduale di tutti i combustibili fossili, è stata respinta dai Paesi produttori di petrolio ed è stata declassata a una riduzione graduale del carbone, cosa che ribadisce semplicemente un impegno già assunto a Glasgow.
Anche il testo sull’energia è stato indebolito e reso molto generico, ma almeno è presente, con i Paesi che hanno riconosciuto come la soluzione della crisi necessiti di “trasformare rapidamente i sistemi energetici”, anche accelerando la diffusione delle energie rinnovabili.
E meno male… ci mancava solo che la volessimo rallentare.