Di Pietro Borsari e Paolo Vigevano
È vero, forse di Marco Pannella non è rimasto davvero nulla. E forse non è rimasto nulla nemmeno di quei radicali che, insieme a lui, portarono avanti una piccola rivoluzione in un’Italia prigioniera del conformismo, del conservatorismo democristiano, del consociativismo e di una sovrastruttura clerico-fascista che cercava di piegare la società civile, illudendosi, spesso a torto, che le somigliasse davvero.
Sì, forse è così. E forse tutti i tentativi di far rivivere quella storia non sono stati altro che il frutto dell’impossibilità, un po’ patetica, di accettare una fine inevitabile, come il revival forzato di una serie TV “cult” degli anni ‘90. In effetti, dal 2016 – da quando i radicali sono rimasti orfani di Marco Pannella, della sua intelligenza politica, della sua inimitabile fantasia – ogni strada percorsa ha riportato i suoi tanti “figli” sempre alla stessa meta: il muro invalicabile della sua assenza. L’incapacità di oltrepassarlo, di immaginare un futuro che non partisse dal quesito “Cosa avrebbe fatto Marco?” è diventata il filo conduttore di ogni iniziativa.
Questo è stato il destino tanto di chi ha cercato rifugio nella conservazione del metodo, quanto di chi ha sperato di potersi affrancare da lui, dalla sua personalità gigantesca e terribile. Alcuni hanno inseguito la difficile via dell’iniziativa extraparlamentare, altri si sono limitati a custodire la memoria (e gli averi) del passato, altri ancora hanno tentato la strada della politica elettorale, fatta di tanti compromessi e, finora, di magri successi.
Ognuno degli interpreti di queste diverse dottrine – iniziative sempre fintamente scismatiche rispetto alla Chiesa originaria – ha creduto almeno una volta che, in un altro tempo, la propria idea avrebbe ricevuto l’approvazione del maestro, del padre. La certezza di aver scelto la strada giusta, la risposta corretta alla domanda che perseguita chiunque abbia abitato lo stesso spazio di Marco Pannella. E del resto l’errore che ha impedito lo sviluppo di un progetto all’altezza della storia radicale è stato proprio credere che quest’ultima fosse riassumibile in ultima istanza in quel nome soltanto.
Per affermare la sua presunta eredità, ciascuno ha dovuto affermare la propria supremazia sulla pretesa degli altri, l’interruzione di ogni dialogo in nome di una lotta all’eresia che è stata, di fatto, la vera causa della fine dei radicali. O, se non della loro fine, quantomeno della scomparsa della possibilità di sviluppare un “centro di gravità permanente” intorno a quelle idee, di trasformarle in una forza vitale, pulsante, in grado di creare e promuovere l’iniziativa.
Marciare divisi senza preoccuparsi di colpire divisi: questo è stato il mantra degli ultimi anni della politica radicale. Nella speranza che, come diceva il Bertinotti interpretato da Corrado Guzzanti, i tanti piccoli virus nati dall’implosione della fu “galassia radicale”, ormai impercettibili alla vista, potessero aggredire con più forza il “regime della partitocrazia” o uno dei tanti mulini a vento della poetica pannelliana.
Eppure, guardando alla realtà di oggi, limitarsi ad osservare con occhi umidi di nostalgia il romanticismo autentico e dirompente di quelle idee, di quella prospettiva così bizzarra e contraddittoria ma al tempo stesso unica, geniale e rivoluzionaria, sarebbe un errore imperdonabile. Accettare che di tutto ciò non resti altro che qualche aforisma da usare per tingere di radicalità la spenta iniziativa politica odierna – e non un monito per alimentare l’ambizione del domani – significherebbe soffocare una spinta trasformativa che ancora esiste.
Può darsi che sia finito il tempo in cui i partiti potevano rappresentare uno strumento efficace per veicolare quella spinta. Eppure, per quanto svuotati, logorati, traditi nella loro stessa natura, questi ultimi restano un passaggio obbligato per incidere nel cuore delle istituzioni, in quei palazzi del potere che certamente possono sembrare sordi e grigi per chi ama una politica “movimentista”, ma che possono essere un veicolo straordinario o un insuperabile ostacolo per il cambiamento, a seconda dell’approccio che si decide di assumere rispetto ad essi.
Fare politica attraverso i partiti significa però accettare il rischio della contaminazione, rinunciare alla tentazione dell’alterità assoluta, del rifugio elitario in un’illusoria purezza. Marco Pannella lo sapeva bene: la vera sfida non è restare intatti, ma immergersi nel confronto senza perdere se stessi. Significa scegliere di essere corsari, non pirati. Navigare ai margini del sistema, senza mai diventare complici della sua decadenza, ma senza neanche illudersi di poterlo combattere con la sola testimonianza.
Ecco perché il dialogo con il sistema politico è necessario, anche sapendo che è responsabile della crisi e della paralisi democratica che viviamo. Non per esserne assorbiti, ma per irrompere con forza, per spingere la politica ad aprire spazi nuovi di partecipazione. Ed è qui che entra in gioco lo strumento dell’iscrizione, non come rito burocratico, ma come atto di adesione consapevole, come strumento di costruzione collettiva. La partecipazione autentica dall’iniziativa: fuori e dentro i partiti, per rompere gli equilibri, per far entrare l’aria in un sistema chiuso che rischierebbe, altrimenti, uno scivolamento costante verso l’autoreferenzialità.
Ma non basta. Se i partiti restano un mezzo necessario per incidere davvero, allora è tempo di una riforma radicale in senso democratico. È tempo di applicare veramente la Costituzione, di dare un senso all’art.49, finora utilizzato solo per regolare (male) il finanziamento ai partiti, e far sì che siano davvero strumenti di partecipazione e non macchine di potere. La politica non può essere solo un’arena per pochi: deve tornare a essere spazio di libertà, rappresentanza, cambiamento.
Forse i radicali non esistono più. Ma di una voce eretica, testarda, dissidente, ci sarà sempre bisogno in questo Paese dannato, perseguitato da un declino pestilenziale che sta contaminando progressivamente il mondo libero. E nel crepuscolo della democrazia liberale a cui stiamo assistendo – con il veleno della tirannia che avanza, sostituendo la violenza al diritto e alla giustizia internazionale, con il seme cancerogeno del populismo che gonfia ogni potere soffocando la democrazia – risvegliare quella passione, elevandola dalla bassezza dell’incomunicabilità, dei personalismi, delle faide, delle chiese rivali, non è una possibilità, è un dovere.
Al di là di ogni confine, di ogni bandiera, appartenenza, tessera o colore politico: questi non erano i dogmi, ma i principi della politica di Marco Pannella, della sua vita, che è stata il grande legame immortale tra tante esistenze che, senza di lui, senza ciò che è stato, non si sarebbero mai incontrate. Del resto, Marco Pannella è stato questo – per chi l’ha conosciuto e per chi non lo conoscerà mai – una fonte inestinguibile, immortale, di connessione, dialogo, fratellanza. Il suo pensiero, in tutte le sue forme, è l’unico antidoto alla sterile incomunicabilità delle società liberali in declino, a un mondo brutale dove l’empatia è un ostacolo mortale nello scontro costante tra poteri sempre più liberi dalle briglie dello Stato di diritto.
Forse l’Italia, il mondo, può fare a meno dei radicali. Può fare a meno di Marco Pannella. Non può fare a meno però della forza del dialogo, del confronto creativo, l’unica forza capace di arrestare l’entropia di questa democrazia mai compiuta. Ma serve anche che quelle esistenze capaci di affermarla, trovino il modo di rincontrare l’Eresia radicale.