articolo di Marco Eramo pubblicato su Il Dubbio del 1 agosto 2023
Le conclusioni del vertice della Nato di Vilnius sono state oggetto di dibattito e sono state variamente analizzate e valutate. Come capita spesso in vicende nelle quali è necessario trovare un difficile equilibrio, sono il linguaggio della diplomazia e le parole a giocare un ruolo decisivo. E le parole ed il messaggio che sono stati più volte evocati e discussi sono questi: il desiderio dell’Ucraina di aderire all’Alleanza Atlantica potrà essere soddisfatto quando ci saranno le condizioni senza precisare quali siano queste condizioni, facendo in modo che la definizione di queste ultime fosse rimessa alle interpretazioni possibili del compromesso linguistico raggiunto e che, stando al testo della dichiarazione finale, suona così: “Noi saremo nella posizione di invitare l’Ucraina a far parte dell’Alleanza quando gli Alleati saranno d’accordo e ci saranno le condizioni” (We will be in a position to extend an invitation to Ukraine to join the Alliance when Allies agree and conditions are met.)
Tenendo in disparte i dubbi sull’effettivo significato della formulazione inserita nella dichiarazione finale del vertice, e presa per buona la lettura sostanzialistica che se ne è data in modo prevalente – quella secondo la quale le porte della NATO sarebbero aperte ma l’invito ad entrare potrà arrivare soltanto quando le truppe russe lasceranno il territorio dell’Ucraina – appare necessario valutare la piena rispondenza di una conclusione di questo tipo rispetto alla situazione sul campo ed alla condizione nella quale si trovano il popolo e le istituzioni ucraini soprattutto se è vero, come è vero – e come è stato ribadito nella parte iniziale della dichiarazione finale del vertice di Vilnius – che gli Stati ed i Governi dell’Allenza Nord-atlantica “uniti dai valori condivisi della libertà individuale, dei diritti umani, della democrazia e dello stato di diritto” si sono riuniti a Vilnius in questo momento critico per la loro sicurezza, nonché per la pace e la stabilità dell’ordine internazionale.
È davvero convincente lasciar intendere che uno Stato aggredito, come l’Ucraina, che non può contare sull’attivazione dei meccanismi previsti dalla Carta delle Nazioni Unite – sabotati dal potere di veto della Russia in seno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu – non si trovi nelle condizioni di essere integrato all’interno di un’alleanza politico-militare; l’unica in grado di proteggere, per le sue ragioni costitutive, oltre che l’integrità territoriale degli Stati membri anche l’ordine internazionale? È possibile sostenere o, meglio, fare in modo che si intenda che queste condizioni ci saranno soltanto quando lo Stato che l’ha aggredita e che continua a sabotare il funzionamento delle regole internazionali sarà sconfitto sul campo e respinto al di là dei confini internazionalmente riconosciuti dell’Ucraina – cosa che sembra considerata non realisticamente raggiungibile dalle stesse forze di intelligence occidentali – e dunque più probabilmente quando il regime di Putin riterrà che ci siano le “sue” condizioni per fermare la guerra e le azioni terroristiche contro l’Ucraina?
E da ultimo, tornando alla questione del raggiungimento da parte dell’Ucraina delle “condizioni” per essere invitata a far parte della NATO non è doveroso domandarsi anche e soprattutto se ed in che misura il mantenimento dello status “coatto” di Stato aggredito e menomato di una parte del suo territorio e di “self-defender” (pur con un sostanzioso e sostanziale sostegno militare) faccia in modo che quelle “condizioni” più generali cui si fa riferimento nella Dichiarazione di Vilnius restino lontane, difficili da raggiungere e se ciò non imponga dei costi – in termini di vittime cadute sul campo e sotto le azioni terroristiche putiniane oltre che di uomini e donne ucraini costretti a fuggire dalle loro case che saranno indotti a mettere in dubbio la possibilità di tornare a vivere nel loro paese – a lungo andare davvero insostenibili?
Sono interrogativi che sembra necessario porsi, specialmente per quanti, come Radicali Italiani che a questo scopo continua a promuovere la raccolta di sottoscrizioni dell’appello “Putin all’Aja” – ma anche per gli Stati ed i Governi della NATO che nella Dichiarazione hanno fatto esplicito riferimento alla necessità che il regime russo venga perseguito attraverso gli strumenti della giustizia penale internazionale – ritengono che non è più possibile rinviare la messa sotto stato di accusa del regime Putin e la consegna del dittatore del Cremlino e dei suoi sodali al Tribunale dell’Aja. Ciò anche e soprattutto perché il momento nel quale le aspirazioni ed i diritti dell’Ucraina e degli ucraini come pure delle molte altre vittime delle azioni putiniane che si trovano anche fuori dalla Russia e dal continente europeo (vedere non solo la strategia ritorsiva contro la circolazione di beni agricoli fondamentali ma anche quel che sta accadendo a proposito dell’accesso degli aiuti umanitari in Siria per effetto dell’uso spregiudicato del potere di veto della Russia in seno al Consiglio di Sicurezza) vanno affermati difesi e riconosciuti pienamente è ora, e non può essere rinviato a quando lo Zar russo riterrà che ci siano le “condizioni” per fermarsi.