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I giganti, l’elefante e il topolino

La nuova segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, durante il suo intervento di insediamento ha detto: serve un grande piano industriale verde, investire nella trasformazione ecologica. Siamo d’accordo, facciamo questo pezzo di strada insieme?

articolo di Massimiliano Iervolino pubblicato il 15 marzo 2023 su Il Dubbio

Ogni volta che si sente parlare di transizione ecologica i più contrappongono a questo processo, ormai inderogabile, la mancanza di una politica industriale che accompagni tale scelta strategica. In poche parole si denuncia lo strapotere della gigante Cina (ma non solo) rispetto alla produzione di batterie, pannelli solari, turbine eoliche, pompe di calore ed elettrolizzatori.

Qualche mese fa un altro gigante, gli Stati Uniti d’America, si è messo in moto per non perdere il treno; infatti è stato varato l’Inflation Reduction Act, il piano da 370 miliardi di dollari di sovvenzioni e prestiti per accelerare la conquista della frontiera verde nella produzione di energia, infrastrutture, prodotti puliti, auto elettrica in testa.

Schiacciato tra questi due giganti, l’elefante europeo – con regole, burocrazia e governance istituzionale troppo tortuose – ha protestato soprattutto nei confronti dell’alleato americano, accusandolo di ammazzare il mercato libero. Da parte sua Biden ha fatto qualche apertura verso il vecchio Continente, ma nulla di più.

A parer di chi scrive il punto, però, è l’elefante: con un assetto federale (politica di bilancio e fiscale comune) l’Europa avrebbe potuto finanziare il suo Inflation Reduction Act. La proposta di sostenerlo economicamente tramite emissione di debito europeo, invece, è stata bocciata dalla necessità di arrivare all’unanimità tra i ventisette Stati: il “miracolo” del Recovery Fund non si è ripetuto. Un altro esempio del perché l’Europa intergovernativa non funziona.

Tuttavia l’elefante si è mosso. La Commissione europea ha approvato nuove regole che consentono agli Stati membri di concedere aiuti pubblici alle imprese. Da una parte aiutare l’industria a zero emissioni, in particolare i programmi per accelerare l’uso di fonti energetiche rinnovabili, lo stoccaggio energetico, la decarbonizzazione dei processi industriali; dall’altra gli Stati membri potranno anche sostenere investimenti per la produzione di tutta la componentistica utile alla transizione ecologica. Privilegiate Pmi e aziende delle regioni meno sviluppate.

L’elefante, però, ci è arrivato come sempre lentamente. Ma c’è di più. Non avendo ripetuto il “miracolo” del Recovery Fund, ovvero l’emissione di debito comune, l’allentamento degli aiuti di Stato potrebbe avvantaggiare chi ha elevati spazi di bilancio: Germania e Francia. La potenza di fuoco di alcuni, quindi, rischia di far saltare il mercato unico creando, di fatto, un’Europa economica, industriale, tecnologica a più velocità di sviluppo e di competitività. Proprio a discapito di coloro che avendo un elevato debito pubblico non possono permettersi spese elevate per una politica industriale verde.

Siamo quindi arrivati al topolino: l’Italia. Elevato debito pubblico, nanismo d’impresa, alto costo di produzione e valore tecnologico delle nostre industrie molto basso. Tutto questo ci blocca tremendamente rispetto alla sfida della transizione verde. Corriamo il serissimo rischio di perdere l’ennesimo treno che, per noi, corre troppo velocemente. Cosa fare? Visti gli strettissimi spazi di bilancio italiani ecco una proposta: perché non spostare le risorse (dai 30 ai 40 miliardi annui) dai sussidi ambientalmente dannosi alle agevolazioni per le imprese nella transizione green?

La nuova segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, durante il suo intervento di insediamento ha detto: serve un grande piano industriale verde, investire nella trasformazione ecologica. Siamo d’accordo, facciamo questo pezzo di strada insieme?