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Tassa su extra profitti, extra-large ed extra-flop

Articolo di Massimiliano Iervolino, segretario di Radicali Italiani, del 20 ottobre 2022

La cosiddetta tassa sugli extra profitti delle società energetiche doveva servire a coprire con nuove entrate fiscali le spese extra che lo Stato si è accollato per attutire almeno in parte il caro-bollette. Ma, a diversi mesi dalla sua entrata in vigore, è già possibile dire che questa misura si è rivelata un gigantesco flop, non tanto per l’idea in sé stessa, che rimane valida e condivisibile, ma per il modo in cui è stata concepita e congegnata.

Vediamo perché.

Il ministero dell’Economia contava di incassare 10,5 miliardi di euro da questa misura.

Il prelievo previsto è del 25%, da applicare alla differenza tra il saldo dell’Iva incassata nel periodo dal 1° ottobre 2021 al 31 marzo 2022, rispetto a quello conseguito nel periodo dal 1° ottobre 2020 al 31 marzo 2021.

Ma alla scadenza del 30 giugno per versare l’acconto del 40%, le ben 11.000 aziende e più lungo l’intera filiera energetica italiana avevano pagato solo 1,23 miliardi di euro. Se fosse questo il ritmo dei pagamenti, alla fine del periodo si sarebbero raccolti solo poco più di 3 miliardi di euro, oltre 7 miliardi in meno del previsto


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Tale enorme differenza dipende dal fatto che, secondo molte aziende, questa misura sarebbe incostituzionale e sarà probabilmente dichiarata tale nell’ambito di una delle impugnative che già sono in corso. 

Se la norma sarà dichiarata incostituzionale è troppo presto per dirlo, anche se si può notare che esiste il precedente della Robin Tax sulle imprese energetiche voluta dal governo Berlusconi nel 2008 e dichiarata incostituzionale nel 2015. Quello che però si può già argomentare è che la tassa sugli extra-profitti sia stata strutturata in maniera quanto meno discutibile

Senza addentrarsi in tecnicismi, in sostanza, la norma prevede il pagamento di una tassa del 25% nel caso in cui il cosiddetto “differenziale Iva” dell’azienda, cioè la variazione della cifra imponibile su cui si paga l’Iva da un anno all’altro, sia aumentato di oltre il 10%, o comunque sia maggiore di 5 milioni di euro rispetto al periodo precedente. 

Il problema è che avere un imponibile Iva più alto non vuol dire necessariamente avere avuto dei profitti extra. Tale aumento può infatti essere dovuto ad un incremento del fatturato, all’acquisto di un ramo d’azienda e ad altri fattori che non riflettono per forza un aumento degli utili. 

Invece di “sparare nel mucchio” prendendo di mira l’Iva, che è un indicatore inaffidabile di profitto, sarebbe stato più logico puntare sullo strumento fiscale di per sé utilizzato per tassare gli utili d’impresa, e cioè l’Ires. Si sarebbe cioè dovuto stabilire un’addizionale Ires temporanea e sarebbe stato tutto molto più semplice. Forse il timore era quello che, così facendo, non si sarebbe riusciti a raccogliere la cifra prevista. Ma, come stiamo vedendo, lo Stato non ci sta riuscendo comunque, e come premio di consolazione si ritrova ad affrontare una sfilza di nuovi contenziosi, di cui tutti farebbero evidentemente a meno.


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Si potrebbe poi fare un’altra notazione, più di merito che di metodo.

Per quanto sia comprensibile che un sistema fiscale butti giù delle reti a strascico per intercettare quanto più gettito possibile, identificare in oltre 11.000 imprese i soggetti tassabili per i loro presunti, giganteschi, extra profitti vuol dire avere un’idea poco realistica di dove si forma il grosso degli utili nel settore energia.

I profitti “veri”, grossi, grassi, tendono a registrarsi a monte della filiera, cioè nella produzione o estrazione della materia prima energetica, che si tratti di gas, greggio o energie verdi. Meno lucrose sono le attività a metà della filiera, cioè quelle della raffinazione, inesistenti per altro per le fonti rinnovabili. Molto risicati tendono ad essere invece i profitti a valle della filiera, cioè quelli relativi alla distribuzione all’ingrosso o al dettaglio dell’energia.

Dovrebbe bastare questa rozza ma abbastanza accurata ripartizione per capire che in Italia non ci sono 11.000 aziende che si occupano direttamente di estrazione e produzione di energia, a cui è attribuibile il grosso dei grassi profitti di cui si parla tanto. Molte di quelle 11.000 imprese sono attive più che altro nella distribuzione, dove c’è spesso ben poco da spolpare e dove, sovente, i rincari si subiscono più che essere sempre di vantaggio.


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Molte aziende hanno anche fatto notare che il periodo preso in considerazione per calcolare il differenziale sia stato caratterizzato da vari lockdown, durante i quali c’è stata chiaramente una riduzione dei consumi energetici e quindi dell’imponibile Iva delle aziende del settore. Conseguentemente, ci sarebbe stato comunque un aumento del fatturato, indipendentemente dall’aumento del prezzo dell’energia. Non tutti i profitti sono insomma considerabili extra, ma sarebbero almeno in parte un semplice recupero dei profitti calati oltre modo nel periodo dei lockdown

In attesa di pronunciamenti dei tribunali, vista l’incertezza e vista soprattutto la pochezza delle tasse raccolte finora, l’Agenzia delle entrate potrebbe puntare sui “ravvedimenti operosi”.

Si potrebbe cioè intervenire sull’entità delle sanzioni e su nuovi tempi di questo strumento, che permette di rimediare a omissioni, ritardi o irregolarità pagando una sanzione inferiore rispetto a quella che spetterebbe nel caso in cui fosse l’Agenzia delle Entrate ad irrogarla. Al momento, comunque, il governo, pur prevedendo “potenziali effetti positivi di gettito” di questa eventuale misura, “in via prudenziale” non li ha quantificati – dopo essere rimasto scottato dalle previsioni sbagliate precedenti.

Molto meglio eliminare questo maldestro congegno fiscale e sostituirlo con qualcosa di equo ed efficace.