articolo di Massimiliano Iervolino pubblicato su Il Foglio del 29 settembre 2021
Se la transizione ecologica ha necessità di un orizzonte temporale medio lungo per realizzarsi, ci sono almeno tre scadenze molto importanti e da comprendere appieno affinché la conversione si realizzi al meglio. Sono le date del 2026, del 2030 e del 2050.
La prima corrisponde alla fine del programma PNRR, la seconda coincide con il primo obiettivo da raggiungere in termini di abbattimento di emissioni ossia il 55%, la terza collima con il secondo obiettivo della neutralità carbonica.
Davanti a noi abbiamo, dunque, circa trent’anni di duro lavoro per limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2ºC e, proseguendo con gli sforzi, per limitarlo a 1,5ºC, proprio come chiedono gli accordi di Parigi. Alcuni scienziati, soprattutto americani, però ritengono che il massimo sforzo di decarbonizzazione vada fatto entro i prossimi dieci anni. Se così non fosse e anche se successivamente raggiungeremmo gli obiettivi fissati al 2050, l’innalzamento di temperatura potrebbe superare di molto i 2° e il pericolo di irreversibilità del processo diverrebbe sempre più reale.
Questo parere fortemente caldeggiato da John Kerry, attualmente inviato speciale del presidente Biden per il clima, è stato motivo di scontro al G20 ambiente di Napoli e sarà sicuramente al centro del dibattito alla ormai imminente COP26.
Per l’Italia il primo passo verso la transizione ecologica è attuare al 100% quanto riportato nel Piano di nazionale di ripresa e resilienza. Questo programma esiste e non può essere cambiato, l’urgenza è attuarlo e non sarà per nulla facile.
Il piano messo a punto dal Ministero della Transizione ecologica non è frutto di fantasia ma di rigorosi calcoli. Per raggiungere il 55% di tagli di CO2eq nel nostro Paese entro il 2030 dobbiamo installare 70 GW di rinnovabili per avere anche l’energia verde necessaria per fare altre tre cose come elettrificare i settori hard to abate (ad esempio l’ex Ilva di Taranto); elettrificare i trasporti locali e nazionali e produrre idrogeno verde (circa 5 GW).
Il dibattito, quindi, deve aiutare a trovare soluzioni per rispondere alla seguente domanda: come facciamo ad installare circa 8 GW/anno di rinnovabili quando negli anni precedenti ne abbiamo installate solo 0.8 GW/anno? Per arrivare a una risposta bisogna ragionare su come abbattere la burocrazia che attanaglia il nostro Paese e come riavvicinare i cittadini alle istituzioni giacché esistono proteste anche per semplici impianti di compostaggio. Questa è l’urgenza.
Il secondo passo avverrà nel 2030 quando servirà un altro piano. Arrivati a quella data, si spera avendo raggiunto il primo obiettivo del 55% di taglio di CO2eq, sarà la ricerca scientifica a dirci che strada percorrere. In dieci anni la tecnologia può fare passi da gigante.
Nel 2030 potremmo utilizzare le innovazioni nel campo degli accumulatori per l’energia da fotovoltaico ed eolico, scoprire se, come dice l’Eni, la fusione nucleare sarà vicino a diventare realtà, se i reattori di quarta generazione per la fissione nucleare saranno davvero come li racconta il Ministro Cingolani e se qualche altra scoperta scientifica ci indicherà un’altra strada ancora.
Il nostro impegno oggi è di rendere reale quanto scritto nel PNRR finanziato fino al 2026 per raggiungere gli obiettivi comunitari al 2030 per poi avvalersi degli sviluppi tecnologici e scientifici al fine di preparare il secondo step fino al 2050. Si chiama transizione (ecologica) perché è un processo abbastanza lungo ma va fatto e bene. Pena il disastro.