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Ergastolo Ostativo

di Giulia Crivellini

Dalle strade invase da boss mafiosi allo Stato prostrato alla criminalità organizzata. Dallo sdegno dall’aldilà di Falcone e Borsellino alla sudditanza all’Europa. In questi giorni si è sentito e si è letto di tutto. Lo scempio del buonsenso e della capacità di analisi ha fatto da padrone.

Eppure la sentenza con cui ieri la Corte costituzionale ha dichiarato parzialmente incostituzionale il cosiddetto ergastolo ostativo è una (attesa) vittoria del diritto.

Ma proviamo a capire: che cos’è l’ergastolo ostativo?

In Italia esistono due tipologie di ergastolo, ossia di pena perpetua, a vita.

Un ergastolo che si può definire “normale”, semplice, che concede al soggetto condannato all’ergastolo la possibilità di usufruire, nel corso della stessa, dei benefici concessi dalla legge (l’assegnazione al lavoro esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione…). E uno di tipo “ostativo” – disciplinato dall’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario e che riguarda delitti particolarmente gravi, non solo l’associazione a stampo mafioso ma anche, ad esempio, l’associazione per traffico di sostanze stupefacenti e molti altri – e che nega, a monte, qualsiasi accesso ai benefici…a meno che il detenuto non diventi un collaboratore di giustizia. A meno che, quindi, non parli.

E qui veniamo alla questione portata all’attenzione della nostra Corte costituzionale (ma prima ancora della Corte europea dei diritti dell’uomo): la non collaborazione con la giustizia come fattore ostativo per il detenuto all’accesso ai benefici di legge.

Sono collaboratori di giustizia coloro che, anche dopo la condanna, “si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati” (articolo 58-ter dell’ord. pen.). Nel nostro ordinamento la mancata collaborazione con la giustizia viene, anzi veniva, considerata dalla legge come una presunzione assoluta di pericolosità del soggetto e quindi un insuperabile ostacolo alla concessione di qualsiasi beneficio penitenziario. La mancata collaborazione del detenuto con la giustizia, in sostanza, diventava la strada diretta e primaria per restare in carcere fino al finire dei propri giorni; la strada diretta per il cosiddetto fine pena mai.  

Eppure, come da anni sottolineato da diversi giuristi ed operatori del settore, il silenzio può rappresentare per il detenuto una scelta obbligata: la preoccupazione di mettere in pericolo la propria vita e quella dei propri familiari è spesso troppo alta. La non collaborazione non implica sempre una adesione ai “valori criminali” di provenienza. Anzi, talvolta la non collaborazione deriva proprio dal professarsi innocenti. Peraltro il distacco dai legami criminali, la dissociazione, si può desumere da altri fattori – come la condotta tenuta durante lo sconto di pena – che non la parola. E ancora: anche la scelta di collaborare non è sempre indice di dissociazione per il detenuto (il fenomeno del “pentitismo” nel nostro paese qualcosa insegna).  

Non stupisce allora che il regime dell’ergastolo ostativo sia stato dichiarato dai giudici di Strasburgo non aderente ai valori europei. La Corte europea dei diritti dell’uomo, con una importante pronuncia del giugno scorso (Marcello Viola c. Italia), ha affermato che questo regime – precludendo in maniera assoluta la possibilità di un reinserimento sociale e quindi anche la speranza di un futuro per il detenuto – si pone in violazione del principio di dignità dell’uomo e del divieto di trattamenti inumani e degradanti, desumibili dall’articolo 3 della Cedu.

Il ragionamento della Corte è chiaro. E parte dal presupposto che il sistema di tutela dei diritti creato dalla Convenzione non osta, di per sé, all’applicazione di una pena perpetua là dove siano commessi gravi delitti. Tuttavia, affinché sia rispettato il divieto di trattamenti inumani e degradanti, è necessario che tale pena sia riducibile de iure e de facto: ossia è necessario che l’ordinamento assicuri un meccanismo di revisione della condanna alla pena perpetua che offra al condannato, decorso un certo periodo di detenzione, concrete possibilità di liberazione. Infatti, il principio della dignità umana di cui all’art. 3 della Cedu – fondante il sistema di protezione dei diritti convenzionale e definito dalla Corte un principio “fondamentale delle società democratiche” – impedisce di privare gli individui della propria libertà senza garantire loro, al contempo, l’opportunità di poter, un giorno, riacquistare tale libertà.

Uno Stato non può permettersi di trattare gli individui come bestie – quand’anche gli stessi abbiano così agito nella vita. Il meccanismo del dente per dente e della pena carceraria perpetua non rende una società più sicura, anzi.

È in questo contesto che si inserisce la recentissima pronuncia della Corte costituzionale italiana. La Corte non si è “sottomessa all’Europa”. In un’ottica di dialogo tra Corti, quello che la nostra Corte in fondo ci dice è che le condotte umane, anche le più terribili, devono essere valutate, non presuntivamente marchiate a vita. La presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante – si legge nel comunicato – “non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità” che siano in grado di escludere il pericolo di collegamento con la criminalità.  

Ecco che questo, come società, dovrebbe sembrarci il minimo che un paese democratico e attento alla propria Giustizia possa garantire. La base di civiltà non solo giuridica ma anche sociale per un assetto che si possa definire democratico.

Perché la lotta alla criminalità organizzata, alle mafie, parte da leggi giuste. Se vivessimo in un paese serio e responsabile dovremmo applaudire alle recenti decisioni della Corte europea per i diritti umani e della Corte costituzionale. Eppure c’è stato persino chi ha avuto il coraggio di definire quei principi “un po’ stravaganti”.