Articolo di Matteo Hallissey pubblicato su il Riformista del 16 aprile 2024
La politica si riempie la bocca della parola “giovani”. Lo fa con paternalismo, con superficialità, con la retorica maliziosa di chi, in fondo, non li considera interlocutori ma merce elettorale.
La Generazione Z, però, non è quel popolo schiavo dei balletti di Tik Tok e degli “influencer” di Instagram che si racconta sui giornali o nelle televisioni. È molto altro. È una generazione che sembra destinata ad ereditare un mondo in frantumi, sconvolto dal trambusto di innumerevoli tumulti e, al contempo, apparentemente immobilizzato nell’ambra di un perenne senso di crisi. La rabbia profonda generata da questa eredità, così povera di opportunità per il futuro, ha dato vita ad un conflitto generazionale che si manifesta con la violenza di una lotta di classe.
L’innesco di questo scontro tra padri e figli è in verità riassumibile con due parole che dobbiamo avere il coraggio di pronunciare: furto generazionale. Si tratta di un concetto raramente richiamato dalla politica, ma vitale per comprendere questo disagio: il prodotto malsano di anni di scelte sbagliate della nostra classe dirigente che hanno avvelenato il pianeta e sottratto risorse a chi lo abiterà un domani. Nel caso dell’Italia la situazione è persino più grave.
Qui pesano quarant’anni di politiche di spesa, bonus e prepensionamenti che hanno prodotto la grande spada di damocle del nostro tempo, il debito pubblico, pronto a ricadere sulle future generazioni. E questo privilegio, fatto di diritti acquisiti, di cui beneficia una generazione che sembra non essere disposta a sedersi sul banco degli imputati, è la chiave per comprendere l’ingiustizia che sta trascinando la generazione Z nel baratro della disillusione.
Questo sentimento prende forma in varie sfumature di dissenso, dalla protesta al disimpegno, ma produce lo stesso risultato, l’irrilevanza e la marginalizzazione politica. “Ci avete rubato il futuro”, è questo il messaggio che i tanto bistrattati giovani vogliono lanciare a quei politici che sono arrivati al potere col voto dei loro padri e dei loro nonni, ispirati, nell’egoismo delle loro scelte, da quel protagonismo anti-storico che spingeva Crono a divorare i suoi figli.
Del resto, però, non è la scelta dell’Aventino astensionista, né tantomeno il muro contro muro dello scontro di piazza, ad aver prodotto le grandi rivoluzioni della nostra storia. È stata la politica, con la sua dose di ascolto e di dialogo.
Da tempo, infatti, si è perso quel legame a doppio filo imprescindibile per un Paese che vuole guardare con speranza al futuro: i giovani hanno abbandonato la politica e, viceversa, la politica ha abbandonato le giovani generazioni, che oggi si ritrovano ad intraprendere forme di attivismo su “single issue”, senza quella cornice di valori e idee che proprio la politica e i partiti potrebbero e dovrebbero fornire.
Per questo abbiamo lanciato con Radicali Italiani un “tour” in 10 università italiane nella seconda metà di aprile. Un viaggio per l’Italia da Gorizia a Cagliari, un’occasione per raccogliere le voci di tante ragazze e ragazzi, un ciclo di incontri con decine di esperti per parlare proprio del futuro delle prossime generazioni, dalla necessità di politiche sostenibili per rispondere alla sconsideratezza del nostro debito pubblico, fino agli investimenti in istruzione, ricerca e sviluppo che mancano.
La campagna, chiamata “Giovani un cazzo!”, è un appello all’impegno per una generazione che oggi abita le università e si troverà presto a raccogliere un pesante testimone in un’Italia che appare ormai un deserto di opportunità. Come diceva Frantz Fanon, ogni generazione ha il compito di scoprire la propria missione.
Questa potrà scegliere se tradirla, facendosi spettatrice del declino, o adempierla, assumendosi la responsabilità di invertire la rotta e percorrere una nuova strada. Si tratta certamente di un percorso in salita che richiede una grande scommessa politica. Noi siamo pronti a farla.