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La direttiva UE sull’efficienza energetica degli edifici pone rischi e opportunità. Dipende da noi

Bandiera europea, alberi sullo sfondo

Articolo di Massimiliano Iervolino pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 18 gennaio 2023

La direttiva europea sulle prestazioni energetiche degli edifici (EPBD) sarà votata dalla commissione Energia del Parlamento Ue il 24 gennaio e dovrebbe essere approvata definitivamente a marzo.

Se si è rimasti distratti in questi giorni dal teatrino governativo che riduce lo sconto sulle accise per poi dare la colpa alla “speculazione” quando la benzina rincara, sarà meglio tornare in noi e fare attenzione a questa direttiva, perché ha implicazioni di portafoglio ben maggiori di qualunque bonus carburante.

La direttiva punta a migliorare l’efficienza energetica degli edifici, nell’ambito del pacchetto europeo Fit for 55. Gli edifici generano, infatti, oltre un terzo delle emissioni di gas serra in Europa – più dei trasporti.

L’efficienza degli immobili è definita da una classe di merito, che va dalla G nel caso di edifici colabrodo alla A degli stabili più energeticamente virtuosi. In vista dell’azzeramento delle emissioni nette entro il 2050, come tappe intermedie, gli edifici privati esistenti dovrebbero raggiungere almeno la classe E entro il 2030, fra soli 7 anni, e la classe D entro il 2033, secondo la direttiva proposta.

In Italia, il 60% circa degli edifici si trova nelle classi più energivore (F, G) e quindi dovrà affrontare riqualificazioni energetiche consistenti per rientrare nei nuovi parametri. Portare un’abitazione dalla classe G alla classe anche solo D, per non parlare della classe A e oltre, vuol dire rigirare la casa come un calzino. Vuol dire cioè installare un cappotto sulle superfici, cambiare la centrale termica, auspicabilmente con una a pompa di calore, cosa che potrebbe comportare un aggiornamento del sistema di distribuzione, o almeno dei terminali di distribuzione, cioè dei termosifoni, passando per la sostituzione degli infissi piuttosto che il rifacimento del tetto.

Chi non lo farà, rischierà di ritrovarsi con immobili deprezzati e meno appetibili sul mercato. Questo si ripercuoterebbe sul patrimonio degli italiani, basato sul mattone, nonché sul valore del collaterale offerto alle banche per ottenere prestiti, la cui copertura potrebbe quindi risultare ridotta, con ulteriori rischi per i requisiti patrimoniali delle banche stesse. Per par condicio, se gli immobili varranno meno sul mercato privato, sarebbe giusto rimodulare al ribasso anche il loro valore catastale e quindi l’IMU, con una penalizzazione anche per le entrate dello Stato. I proprietari inadempienti potrebbero inoltre andare incontro a possibili sanzioni.

È vero che sono previste delle eccezioni: ad esempio, edifici storici, luoghi di culto, case indipendenti fino a 50 metri quadrati, seconde case abitate meno di 4 mesi l’anno dovrebbero essere esentate. A differenza delle bozze precedenti, inoltre, non sono previste penalizzazioni per chi non si adeguerà, come restrizioni sull’affitto di abitazioni colabrodo. Il compito di stabilire le sanzioni è poi demandato ai singoli Stati, ed è prevedibile che l’Italia, con lo stock edilizio vetusto che ha, si limiterebbe a sanzioni edulcorate, o a nessuna sanzione.

L’atteggiamento del “fatta la legge, trovato l’inganno”, però, non può assurgere a politica di governo e contraddirebbe l’evidenza delle emissioni causate dagli edifici. Vale la pena allora sottolineare che i possibili interventi richiesti dalla direttiva EPBD sono gli stessi previsti per accedere alla detrazione fiscale del Superbonus.

Con l’idea del Superbonus, approvato nel 2020, l’Italia si è posta all’avanguardia degli sforzi di efficientamento energetico nel settore immobiliare europeo. Ma abbiamo impostato male l’idea all’inizio e abbiamo fatto di tutto per metterle i bastoni fra le ruote nel durante. L’idea, però, era ottima e continua ad esserlo, soprattutto in funzione della direttiva EPBD.

Non si può fare a meno di notare che tale direttiva, infatti, non è una novità che improvvisamente ci piomba fra capo e collo. La sua prima versione risale al 2002. È stata poi rimaneggiata nel 2010 e aggiornata nel 2018. Già da anni si sapeva di dover fissare una tabella di marcia che includesse tappe intermedie per il 2030, il 2040 e il 2050. Per dei governi attenti non ci sarebbe voluto tanto per fare due più due, per collegare i puntini fra Superbonus e direttiva EPBD e stilare un unico piano di lungo termine, non certo limitato al 2022-23, con tutti gli stravolgimenti di mercato che tale scadenza troppo ravvicinata ha contribuito ad aggravare, sulla scia dei contraccolpi della pandemia e dell’invasione russa dell’Ucraina.

Nonostante i tira e molla infiniti facciano male alla certezza del diritto e alla pianificazione di aziende e famiglie, sarebbe il caso di rimettere mano al Superbonus, correggendone una volta per tutte gli errori più macroscopici. Si dovrebbe renderla una misura a lungo termine, con orizzonte al 2050, legare l’entità della detrazione fiscale al grado di miglioramento dell’efficienza, mantenendo la detrazione al 110% per chi fa gli interventi più risolutivi e liberando le cessioni del credito.

Speriamo l’Italia torni a guidare questo processo, invece che ostacolarlo.