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Contributo per Commissione statuto

di Lorenzo Strik Lievers

Non mi sarà possibile partecipare alla riunione di domenica. Faccio qui qualche considerazione, in funzione della scelta proposta dalla presidenza della commissione di avviare con il congresso una fase lunga di riflessione e approfondimento nella quale la discussione sullo statuto faccia tutt’uno con quella di fondo, sulla funzione e gli scopi di RI. Come fu nel 1967, quando si scrisse quello statuto, completamente sproporzionato per il gruppetto che eravamo, proponendo un modello per quel grande partito della sinistra unita che dichiaravamo di volere. Lo statuto insomma voleva essere, se non uno strumento, un manifesto del progetto politico di lungo periodo. Mentre poi le regole effettive che hanno retto il PR a lungo sono state sì quelle dello statuto che erano applicabili anche in una piccola formazione, ma poi anche norme transitorie via via mutate nel tempo.

Nulla naturalmente ci obbliga a tornare ad attribuire alle regole interne di RI una funzione del genere. Si può arrivare, eventualmente, a pensarlo e a proporselo in funzione del progetto politico che si adotterà, se tale progetto potrà richiedere un simile ruolo dello statuto, com’era negli anni 60. 

Questo ci porta direttamente al tema di fondo: a me sembra – può essere naturalmente un mio difetto di vista non riuscire a cogliere qualcosa che ad altri è chiaro – che un progetto politico d’insieme non lo abbiamo. Voglio dire una visione politica complessiva della situazione, delle trasformazioni politiche cui miriamo e delle strade per arrivarci. In vario modo, aggiornandolo e mutandolo via , nella sua storia il PR lo ha avuto un tale progetto: che si trattasse dell’alternativa democratica di sinistra al regime DC, o dell’opposizione-alternativa al regime partitocratico per conquistare certezza del diritto, o della riforma elettorale e istituzionale per arrivare a un bipartitismo anglosassone e per controllare la spesa pubblica, ecc. Oggi RI conduce anche con efficacia, salvo qualche incidente di percorso referendario, battaglie importanti: ma in relazione a quale progetto strategico? Non basta a configurarlo l’impegno del movimento sulla cannabis, sull’eutanasia o sull’aborto, né per ora quello sui temi ambientali. 

Se questo è vero, sta qui il cuore di quello che opportunamente è stato indicato come tema essenziale di questa commissione e del lungo dibattito cui si auspica che essa sappia dar vita; quello circa la funzione di RI.  E dato che, evidentemente, Radicali italiani è un’organizzazione politica volta a continuare in Italia la storia radicale, in questo contesto la questione va posta. 

Quale dovesse essere la funzione del PR un tempo era chiarissimo: quella di un soggetto che, appunto, promuoveva un progetto politico d’insieme: cioè, un partito. In quanto tale, evidentemente e logicamente, esso prevedeva come essenziale al proprio essere la partecipazione alle elezioni, Si badi, questo era vero in toto anche nei quasi quindici anni, fino al 1976, in cui il partito non si presentò alle elezioni. Ciò che faceva perché con tutta evidenza non era in grado di presentarsi se non con esiti catastrofici, che ne avrebbero indebolito la credibilità; ma ogni volta per giustificare la non partecipazione si dovettero addurre indignate denunce sul carattere truffaldino delle elezioni. Denunce poi provvidenzialmente messe in secondo piano quando, nel 1976, si erano create condizioni che facevano pensare non impossibile un successo elettorale. E comunque lungo tutto quest’arco di anni il PR aveva avuto uno statuto buona parte del quale era dedicata a normare la partecipazione ai confronti elettorali e la presenza in parlamento. Del resto è assolutamente logico: che senso ha condurre un’azione politica indirizzata a far sì che il parlamento prenda questa o quella decisione e precludersi la possibilità di inviare in parlamento propri esponenti che quegli obiettivi abbiano come propri? Che senso ha obbligarsi per propria regola a mendicare da altri, eletti con altre impostazioni e priorità politiche, di condividere e portare essi in parlamento le proprie proposte? 

La scelta che poi fece il partito di non presentare più liste con il suo simbolo non derivava affatto da una scelta di principio contro la partecipazione diretta alle elezioni ma, come tutti sanno, dalla trasformazione in partito politico transnazionale. La scommessa era quella di riuscire a suscitare una forte presenza del partito nei parlamenti di molti paesi, per potervi dar vita a azioni politiche coordinate e contemporanee. Impossibile immaginare di riuscirvi creando ovunque la nuova forza politica con la capacità di arrivare a eleggere propri parlamentari. L’unica strada immaginabile era quella di trovare consensi tra parlamentari già eletti da partiti diversi già presenti nei vari paesi, e possibilmente partiti forti. Per sperare di poterlo fare occorreva che il partito radicale non fosse, in questi paesi, un possibile concorrente elettorale dei partiti fra i quali si cercavano doppie tessere di questo genere. Di qui, per coerenza, la decisione di non presentare più liste del partito radicale ormai transnazionale neppure in Italia. 

Questa scelta non implicò mai, neppure per un momento, quella di far diventare i radicali una forza per principio o per scelta extra-parlamentare. Dopo l’operazione di presenza  in liste di tanti partiti alle europee del 1989 (operazione coordinata, si badi, dunque operazione del partito che eravamo, se non del PRT come tale), venne la decisione di creare la lista Pannella: scelta che Pannella ci spiegò e motivò come “la sola che poteva renderci riconoscibili”. In modo cioè da poterci presentare alle elezioni, noi radicali, in modo che gli elettori potessero individuarci e votarci come radicali, senza che noi usassimo la sigla del partito radicale. Insomma: noi, sempre noi, senza equivoci, per continuare a essere una parte politica a tutto tondo, quella stessa parte politica che eravamo da trent’anni, ma in una forma che non mettesse in difficoltà il partito transnazionale come tale.

Se avessimo affermato in linea di principio, o affermassimo ora come RI, che era meglio essere un movimento politico extraparlamentare, per non saprei quale ragione (di purezza? di disinteresse personale, come di persone non interessate agli onori e ai poteri del parlamento? per stare con e nella società civile, o meglio “con la gente”, e non nella casta? ecc.) saremmo stati, o saremmo, partecipi della sciagura populista e antipolitica da anni ormai dilagante. A meno, naturalmente, di rinunciare ad essere una forza politica nel senso pieno del termine, ossia un partito politico. 

Del resto, Radicali italiani oggi non è il partito transnazionale, per il quale valevano le ragioni che dicevo sopra. ( A ben vedere non lo è più nemmeno l’attuale PRNTT, che di fatto ha rinunciato a cercare di diventare quel tipo di organismo politico che si era perseguito fra fine anni ottanta e i primi novanta. Tanto che può legittimamente convocare i propri congressi; come per anni non si era fatto, vivo Pannella, perché non si era in condizione di convocare un vero congresso transnazionale di un vero partito transnazionale).

In termini di coerenza con la storia radicale, e in linea di principio, è stata non solo legittima ma direi doverosa la scelta che abbiamo compiuta di definirci non come un movimento che per statuto non può essere soggetto elettorale ma come un partito politico che si candida alla direzione della cosa pubblica, e dunque legittimato a concorrere alle elezioni. Come appunto faceva il PR anche nei primi anni 60, quando eravamo poco più di 100 iscritti.

Quelli che mancano però, come dicevo all’inizio, sono il progetto politico e la strategia per portarlo al successo; oltre che naturalmente la forza dei numeri e dei consensi. Si può giustamente osservare che un progetto politico d’insieme che sia in qualche modo giustificazione dell’esistenza del partito manca ormai pressoché a tutte le forze politiche italiane. Ma a tale carenza esse, quale più quale meno, suppliscono con gli strumenti che consentono loro di procurarsi in vario modo potere e consensi elettorali; che non è il caso per noi, con i nostri poco più che 500 iscritti. (Ricordo, per inciso, che nel 1972 – nel 1972! – Pannella fece decidere al partito, fin lì minuscolo nei numeri, che o si arrivava almeno a 1000 iscritti oppure, per mancanza delle forze minime, si sarebbe chiuso il PR. Con uno sforzo enorme, segretario Bandinelli, ci si arrivò). 

Mi sembra che una delle questioni su cui sarebbe opportuno che come radicali avviassimo una riflessione, in vista di elaborarlo, un progetto politico, e anche in relazione al tema della nostra forma-partito, possa essere proprio questa ormai quasi scomparsa dei partiti. Scomparsa, almeno, come corpi sociali in cui i cittadini si riconoscono e si organizzano per far vivere le proprie visioni e concezioni, i propri ideali, interessi e programmi: il fenomeno che così radicalmente segna un paese un tempo governato dalla “repubblica dei partiti”, e in cui milioni di persone affidavano proprio ai partiti tante delle loro speranze, e che attraverso i partiti si sentivano rappresentate. Dopo che per tanto tempo è stato il peso soffocante della partitocrazia a compromettere la democrazia in Italia, si può forse dire che questa scomparsa dei partiti – effetto in larga parte proprio della partitocrazia – sia un aspetto fondamentale dei nuovi termini della crisi della democrazia nel nostro paese.

Non potrebbe essere questo un tema di primo piano di una nostra riflessione su un progetto politico per l’Italia? Come fare a far ritrovare ai cittadini un gusto di darsi organizzazioni per pesare nella vita politica intorno a progetti di ampio respiro e lunga durata, organizzazioni quali erano un tempo e non sono più i partiti politici? Vaste programme, suonava la sferzante ben nota espressione di De Gaulle. E però, anche un piccolo gruppo forte del prestigio di una illustre tradizione potrebbe forse cominciare a porlo questo problema, a farne oggetto di sfida e di dibattito; e magari – ecco l’oggetto di questa commissione – a ragionare sul tema anche in funzione del proprio organizzarsi e vivere e richiamare le persone all’impegno. Magari trovando modo di far tesoro dell’esperienza appena fatta della straordinaria mobilitazione realizzata per la raccolta di firme sui referendum.

Altro tema possibile di discussione, quello cui accennavo sopra del fallimento del progetto di partito transnazionale. In una realtà del mondo, dell’Europa e dell’Italia in cui l’esigenza da cui s’era mosso il progetto di partito transnazionale pare più forte che mai, non varrebbe forse la pena di tentare se non altro una riflessione circa le ragioni per cui quel progetto è fallito? Per cercar di capire se in qualche modo può essere immaginabile un organizzarsi di cittadini per agire sul terreno anche delle grandi scelte di governo del mondo che superano i confini nazionali, ambito nel quale l’agire politico delle persone in tanta parte rimane invece confinato?

Va da sé poi che se RI sceglie di essere a pieno partito politico non può non essere consapevole che a breve non esiste alcuna possibilità per esso di presentarsi in quanto tale alle elezioni, come non esiste per nessuno dei frammenti della diaspora radicale, né per tutti ove per ipotesi difficile oggi da immaginare decidessero di farlo insieme. E anche questo, se si parla di che tipo di partito si vuole essere e diventare, ed eventualmente con chi, e per che strade e prospettive, è tema di cui discutere.

Le questioni su cui ragionare circa il ruolo di RI e in conseguenza circa le regole statutarie da darsi sono anche molte altre. Ma mi fermo qui.