Comitato Nazionale si è tenuto a Roma, dal 19 al 21 gennaio 2007
di Carlo Troilo
I senatori Salvi e Villone, con il loro libro “Il costo della democrazia”, hanno compiuto un’opera meritoria perché ci hanno dato un quadro del numero delle persone che vivono “di politica” (gli eletti ai diversi livelli del sistema rappresentativo) o “a fianco della politica” (i destinatari di incarichi e consulenze nel settore pubblico allargato) ed un bilancio del loro costo complessivo: un quadro ed un bilancio chiari, molto disaggregati e sicuramente attendibili, con il solo, rilevante margine di approssimazione che deriva dalla scarsa trasparenza della politica e dalla conseguente mancanza di dati per determinati settori della stessa. Riprendo dal loro libro molti dei dati che utilizzerò in questa nota.
Tento una sintesi, per quanto difficile.
Il totale degli eletti è di 149.593 (119.046 i soli consiglieri comunali); il totale dei consulenti è di 278.296: il totale generale di 427.889: un esercito di persone, ma secondo Salvi e Villone il vero totale è ancora di molto superiore.
Il costo globale di questo esercito è di 1.851.767.958, quasi due miliardi di euro l’anno. Ma questa cifra non include alcune voci molto rilevanti, per le quali non c’è un bilancio pubblico: la Presidenza della Repubblica e del Consiglio dei ministri; i ministri, i vice ministri e i sottosegretari; gli uffici di presidenza di Camera e Senato e delle regioni; e molte altre. Se tutti questi costi fossero conoscibili, la somma finale sarebbe probabilmente fra i 3 e i 4 miliardi di euro, pari cioè all’entità di una pesante legge finanziaria.
Tre sono le più elevate voci di costo, in milioni di euro: 188 per i parlamentari (più 12 per i parlamentari europei); 156 per i sindaci e i vice sindaci dei comuni; 124 per i consiglieri regionali. Sono, questi, i dati più noti, su cui più spesso si concentrano l’attenzione e le critiche dell’opinione pubblica.
Meno note, almeno per i non addetti al lavori, sono altre notizie, su cui quindi mi soffermerò.
La prima è che la metà dei costi totali (circa 960 milioni di euro) è assorbita dalla voce “incarichi e consulenze”, interni ed esterni alla Pubblica Amministrazione. Questo tema può solo essere accennato, in questa sede, data la sua complessità .
La seconda riguarda il peso numerico ed economico di due entità su cui i cittadini sanno ben poco: le comunità montane ed i municipi (o circoscrizioni, come comunemente vengono chiamate).
Le comunità montane sono 357 ed hanno un totale di 12.820 consiglieri (1). Solo i loro presidenti costano 13.681.583 euro; il costo dei consiglieri – che ricevono un “gettone” variante dai 17 ai 36 euro per riunione – non è noto, e sarebbe piuttosto ardito tentare una stima attendibile. Le comunità montane ricevono dallo Stato, per le loro attività , un finanziamento annuale di 800 milioni di euro.
I municipi sono 790; i consiglieri 12.541. Il calcolo del loro costo totale è il più difficile, non
essendo disponibili dati ufficiali. L’indennità mensile dei presidenti oscilla tra i 2.400 (Venezia) ed i 5.000 (Palermo) euro mensili. Per i consiglieri, gli unici dati resi pubblici riguardano i 427 di Napoli (950 euro al mese) ed i 156 di Catania (1.500 euro al mese): le fonti sono due giornali, rispettivamente “Il Mattino” e “La Stampa”. Prendendo come base i compensi meno elevati, si può stimare un costo dell’ordine di 10-15 milioni di euro l’anno, comparabile con quello delle comunità montane. A questo vanno naturalmente aggiunte le spese (correnti e di investimento) sostenute dai municipi. I dati andrebbero pazientemente messi insieme; ma un’idea di massima si può averla partendo dalla recentissima notizia relativa ai municipi della capitale: nei giorni scorsi il Comune di Roma ha assegnato loro fondi per 900 milioni di euro (ma anche la Provincia ha voluto partecipare al gioco con un “cip” di 5 milioni).
La terza notizia che emerge dal libro riguarda la possibilità , in base alle leggi attuali, di un ulteriore, forte aumento numerico delle diverse fattispecie di enti locali. L’esempio più significativo è quello delle province. Ad oggi, esse sono 103, ma sono già stati presentati 28 disegni di legge, per lo più bipartisan, per l’istituzione di altrettante nuove province. E poiché la legge attuale prevede che bastano 200.000 abitanti per crearne una nuova, il numero totale delle province potrebbe, almeno sulla carta, arrivare a 280, con la conseguente creazione di altrettante Prefetture e Questure. Forse ancora più impressionante è la potenzialità di crescita del numero dei municipi (e dei relativi costi), dato che il testo unico sugli enti locali del 2000 prevede come obbligatoria la creazione di municipi per i 42 comuni con più di 100.000 abitanti, ma la consente anche per i 200 comuni con più di 30.000 abitanti.
Infine, non è un solo un rischio potenziale ma una realtà accertata il fatto che molti enti locali hanno aumentato o si ripropongono di aumentare il numero dei loro consiglieri: è quanto già avvenuto di recente per cinque regioni, in cui il totale dei consiglieri è passato da 270 a 318; è quanto previsto a breve per atre sei regioni, per le quali il totale passerà da 260 a 323 consiglieri. Dunque, siamo di fronte ad un esercito che accresce di continuo il numero delle sue “divisioni”.
Anche per chi non è qualunquista, ed è anzi consapevole del fatto che la democrazia ha elevati costi organizzativi (come dimostrano le tormentate vicende del finanziamento dei partiti, che oggi ammonta ufficialmente a 288 milioni di euro), appare evidente che ai costi fisiologici si sono aggiunti degli enormi extra-costi, quelli della clientela politica: qualcosa che ricorda molto, a chi come me ha vissuto dall’interno le vicende delle Partecipazioni Statali, gli “oneri impropri” che affondarono i conti economici degli enti di gestione, portando alla liquidazione dell’EGAM, dell’EFIM ed infine dell’IRI, protagonista dello sviluppo industriale e infrastrutturale del Paese.
Dunque, per non rischiare la bancarotta, è necessario intervenire per ridurre gli sprechi e le duplicazioni. Per far questo, vi sono due strade da seguire.
La prima è quella di verificare, anche alla luce dei nuovi ed importanti ruoli acquisiti dalle regioni e dell’accresciuto potere dei sindaci, la congruenza del sistema di autonomie locali che si è andato disordinatamente sviluppando negli ultimi decenni, creando una specie di enorme matrioska: il parlamento europeo, il parlamento nazionale, le regioni, le province, i comuni, i municipi, le comunità montane (cui potrebbe aggiungersi una nuova realtà , quella delle Città Metropolitane, previste dall’articolo 114 della Costituzione). L’obiettivo dovrebbe essere quello di giungere ad un accorciamento, dal punto di vista politico e amministrativo, della “catena di comando”, per usare una espressione degli esperti di organizzazione industriale, eliminando gli anelli superflui o ridefinendone i compiti e gli assetti. Si tratta di un complesso lavoro di ricerca e di valutazione di medio – lungo periodo, cui è necessario dedicarsi da subito, avendo però la consapevolezza che esso susciterà fin dal suo annuncio resistenze e opposizioni di ogni genere da parte della stragrande maggioranza delle forze politiche ed anche, se non efficacemente e serenamente gestito in termini di comunicazione, di parte dell’opinione pubblica.
La seconda strada, pienamente compatibile con gli obiettivi di lungo termine, è quella di individuare da subito alcune parziali modifiche, realizzando in breve termine significativi risparmi di risorse finanziarie, da destinare ad obiettivi di alta priorità economica e sociale.
Le aree su cui si potrebbe incidere appaiono quattro: le province, i municipi, le comunità montane, i piccoli comuni da accorpare.
Mi sembra opportuno, e dirò perché, partire dalle province.
“Importate” dai piemontesi dopo l’unità d’Italia, le province sono un residuo dell’assetto organizzativo del Paese precedente la nascita delle regioni. Già nella Assemblea Costituente non passò per pochi voti un testo che diceva: “La Repubblica si riparte in regioni e comuni. Le province sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale”. Dopo 25 anni venne la battaglia, purtroppo perdente, di Ugo La Malfa, che chiedeva la abolizione delle province come premessa per la costituzione delle regioni. Di recente, da diverse parti (cito tra gli altri Carlo Tognoli, Antonio Di Pietro, Renato Soru, il “Sole 24 Ore” con una vera campagna stampa) si è tornati a chiedere un intervento in merito. In tutte queste prese di posizione si sottolinea che le province sono divenute l’anello debole dell’assetto politico italiano quale si è venuto configurando dal dopoguerra, con le regioni titolari di sempre più estesi poteri ed i comuni con un incontestabile ruolo di riferimento locale. Le loro competenze – non a caso vaghissime anche nella Carta Costituzionale – sono in realtà residuali rispetto ai “poteri forti” delle regioni e dei comuni, ma non per questo meno estese ed eterogenee, andando dalla cura delle strade alla edilizia scolastica alla tutela della fauna. Ecco, ad esempio, le materia su cui ha competenza la provincia più importante d’Italia, quella di Milano: “Agricoltura, ambiente, lavoro, cultura, formazione professionale, lavori pubblici, istruzione scolastica, protezione natura e parchi, servizi sociali, territorio e urbanistica”. Ma l’interesse principale di molti presidenti e consiglieri sembra rivolto ad una costosa attività di sponsorizzazione delle più disparate iniziative e di “missioni all’estero”, con tanto di costose sedi di rappresentanza: una attività così frenetica e dispendiosa che la legge finanziaria 2007 ha tentato di porvi un freno (2). Né meno importanti sono le partecipazioni azionarie in società e consorzi, per lo più pubblici, di ogni tipo: partecipazioni che appaiono spesso ingiustificate e sembrano far rientrare dalla finestra quel sistema di imprese pubbliche che negli anni ottanta e novanta è stato in gran parte – e qualche volta malamente – smantellato con le privatizzazioni. Anche in questo caso la finanziaria 2007 ha cercato di mettere un freno (3). Prendo ad esempio una delle tre ultime arrivate tra le province italiane, quella di Monza – Brianza (MB), che ha approvato un bilancio 2006 di 85 milioni di euro e che partecipa, in varie forme, a una dozzina di società e consorzi (4). Se moltiplichiamo queste partecipazioni della neonata BM per quelle delle altre 102 province italiane, arriviamo ad almeno un migliaio di società e consorzi, spesso con ragioni sociali e finalità indecifrabili, e ad un vero impero economico e finanziario,
Malgrado queste premesse, sarebbe velleitario pensare tout court alla abolizione delle province. Una via intermedia potrebbe essere quella suggerita da Gianfranco Fabi su “Il Sole 24 Ore”: “Limitarsi ad abolire la dimensione di rappresentanza politica che nelle province si esprime (presidenti, vice presidenti, assessori, consiglieri), facendo della struttura tecnica – operativa il braccio esecutivo di scelte politiche meglio gestibili su basi regionali”. Cito, perché sintetizza bene questa proposta, quanto ha scritto in merito Carlo Tognoli: “Se il costo delle Province è superiore a 17 miliardi di euro, non bisogna illudersi di azzerare questa uscita, ma si può ipotizzare che l’eliminazione degli emolumenti degli eletti, l’alienazione di beni immobili non più necessari per servizi già svolti da altre amministrazioni pubbliche, nonché l’abbattimento conseguente della spesa delle gestioni ivi comprese produrrebbe un risparmio significativo. Il personale potrebbe essere assegnato alle altre amministrazioni, tenuto conto del buon livello professionale esistente. Per contro, cadrebbero le migliaia di consulenze cui le province hanno fatto ricorso in questi anni. Le attuali competenze delle amministrazioni provinciali sarebbero svolte dalle Regioni e dai Comuni. Gli strumenti operativi, ove ritenuti utili per coordinare gli interventi ad una dimensione subregionale, potrebbero essere creati dalle Regioni senza spesa alcuna”.
Questa soluzione eviterebbe di creare un problema occupazionale, problema grave visto che i dipendenti delle province sono oltre 60.000. Si potrebbe però prevedere una riduzione di questo personale, una volta verificate le duplicazioni di funzioni con gli altri enti locali, con il ricorso al blocco totale o parziale del turn over.
Il totale dei risparmi conseguibili con questa soluzione è difficile da quantificare. Certamente, si azzererebbe il costo annuale dei presidenti (6.354.280 euro), dei vice presidenti (4.765.706 euro) e dei 3.039 consiglieri. Per questi ultimi, la cifra esatta manca, ma dato il numero elevato di coloro che percepiscono i “gettoni”, potrebbe ragionevolmente arrivare a 15 milioni di euro l’anno, così da giungere ad un risparmio totale sui consigli provinciali di circa 25 milioni di euro. A questo risparmio si aggiungerebbe quello relativo alle già citate “attività di sponsorizzazione” ed alla schiere di consulenti. Anche qui, si può solo fare una stima: ipotizzando che le province assorbano un 10% del totale (circa 500 milioni di euro) delle consulenze assegnate dalle autonome locali, si tratterebbe di altri 50 milioni di euro di possibile risparmio. Ma è chiaro che i risparmi maggiori verrebbero dalla riduzione dei bilanci complessivi – spese correnti e spese di investimento – delle 103 province. Una valutazione comune dei giornalisti economici che si sono occupati del problema (Gianfranco Fabi su “Il Sole 24 Ore” e Alberto Statera su “La Repubblica”) porta ad un possibile risparmio del 30% su una spesa totale di circa 20 miliardi: qualcosa come 7 miliardi di euro, poco più del doppio della contestata finanziaria del governo Prodi.
Un risparmio – si badi bene – cui non corrisponderebbe alcun danno per il sistema politico, costretto a introdurre sempre nuovi balzelli per finanziarie le province (5). Con questa riforma si potrebbe anzi contribuire ad un migliore funzionamento complessivo del complesso delle autonomie locali, riducendo i tanti e spesso paralizzanti conflitti di competenza delle province con le regioni ed i comuni.
In parallelo alla abolizione del livello politico – elettivo delle province, si potrebbe pensare alla soppressione di molte o di tutte le 103 prefetture: una struttura ottocentesca, adatta per uno Stato centralistico e per un paese con le caratteristiche geografiche dell’Italia, ma di cui è davvero difficile spiegare l’utilità nell’era del federalismo, degli aerei, delle telecomunicazioni e di Internet.
Cosa si potrebbe fare con questi sette/otto miliardi di euro? Solo per fare un esempio, (visto che molti altri sono i settori in cui vi è un drammatico bisogno di risorse aggiuntive), si potrebbero dare 400 euro al mese in più ai pensionati, per il 70% donne, che vivono con meno di 500 euro al mese. Si tratta di 1.739.000 pensionati: tra questi, è particolarmente penosa la situazione dei 460.000 anziani, all’80% donne, che ricevono soltanto la pensione sociale, nella misura media di 398 euro al mese.
Un discorso analogo a quello relativo alle province si potrebbe fare per i municipi e le comunità montane. Ma forse non è il caso di mettere troppa carne al fuoco. E’ però interessante, per dare un’idea di quanto l’argomento sia scottante, ricordare, a proposito delle comunità montane, un episodio cui la stampa non ha dato molto rilievo. Il 21ottobre del 2005 il sottosegretario al Ministero per le infrastrutture ed i trasporti del governo Berlusconi, Silvano Moffa, già Presidente AN della Provincia di Roma, annuncia in una intervista al “Corriere della Sera” che la finanziaria potrebbe prevedere la abolizione delle comunità montane, con un risparmio per la finanza dello Stato compreso tra 800 milioni e 1,6 miliardi di euro. Insorge il Presidente della associazione che le rappresenta, la UNCEM, Enrico Borghi (La Margherita), secondo il quale la spesa corrente delle comunità montane è “solo” di 170 milioni di euro, che inoltre attivano investimenti molto più rilevanti. Si schierano subito con Borghi gli esponenti di tutti i maggiori partiti, da Forza Italia ai DS. Ma c’è, anche tra gli esponenti di primo piano di questo settore, una voce discordante. E’ quella di Mario Caligiuri, consigliere nazionale dell’Uncem e presidente del consiglio comunale di Soveria Mannelli, sede di comunità montana. “Tranne qualche lodevole eccezione – dichiara – le comunità montane non servono a niente”. Sarebbe meglio – aggiunge – “sopprimerle e ripartire gli 800 milioni di euro attualmente trasferiti alle comunità montane tra i comuni di montagna”, che possono offrire gli stessi servizi ”meglio, prima e spesso a costi più bassi”.
Infine, un obiettivo forse meno difficile da perseguire è quello dell’accorpamento dei piccoli comuni, almeno fino a raggiungere il numero di 5.000 abitanti. Oggi i comuni sotto i 5.000 abitanti sono 5.935 su un totale di 8.101. Ma in questo caso il conto dei possibili risparmi è tutto da fare.
Dunque, molti fronti si possono aprire: per ognuna di queste battaglie si tratta di mettere insieme i tanti “volenterosi” pronti a combatterle.
Note
(1) Le comunità montane riuniscono – come si legge nel sito web della loro associazione, la UNCEM – “4.201 comuni classificati montani o parzialmente montani, oltre ad alcune amministrazioni provinciali e ad altri enti operanti in montagna, quali i consorzi di bacino imbrifero, i consorzi di bonifica e i consorzi forestali, per un territorio pari a circa il 54% di quello nazionale, ove risiedono oltre 10 milioni di abitanti”.
(2) La Finanziaria 2007 contiene questa norma: “Regioni, Comuni e Province, fatti salvi gli uffici di rappresentanza presso gli organi UE nonché quelli delle associazioni nazionali degli enti locali, non possono sostenere spese per l’acquisto o gestione di sedi di rappresentanza in paesi esteri o per la istituzione di uffici o strutture comunque denominate per la promozione economica, commerciale e turistica, se tali spese vengono coperte con fondi derivanti da trasferimenti da parte dello Stato”.
(3) La finanziaria 2007 impone che “tutte le amministrazioni pubbliche e gli enti locali comunichino alla Funzione Pubblica l’elenco dei consorzi di cui fanno parte e le società a totale e parziale partecipazione da parte degli enti stessi, indicando ragione sociale, misura della partecipazione, durata dell’impegno e onere complessivo gravante per l’anno sull’ente, oltre al numero dei rappresentanti dell’ente negli organi di governo e il loro trattamento economico. In caso di mancata o incompleta comunicazione – aggiunge la finanziaria – l’ente non potrà erogare somme al consorzio o società , e verranno detratte le medesime somme dall’ente sostenute a valere su qualsiasi fondo erogato dallo Stato”.
(4) Il bilancio 2006 della provincia Monza – Brianza enumera le “partecipazioni strategiche” in ALSI spa, BEA spa, Sviluppo Brianza, scarl e AGINTEC scarl oltre alle partecipazioni nel Consorzio Parco Regionale della Valle del Lambro, il Consorzio Brianteo Villa Greppi di Monticello Brianza, il Consorzio provinciale della Brianza Milanese di Seregno. “Saranno suddivise con la Provincia di Milano – aggiunge il documento – e gestite coerentemente le quote relative al Consorzio per il Parco delle Groane; IDRA S.p.A. e IDRA Patrimonio s.p.a. di Vimercate, CEM Ambiente s.p.a. di Cavenago Brianza ed il Consorzio Area Alto Milanese di Cesano Maderno, che sono partecipate sia da Comuni della Brianza che da quelli di Milano. Rispetto ad ASAM, la holding dedicata alla mobilità autostradale – conclude la relazione al bilancio – si chiede di attribuire alla nuova Provincia MB le quote di competenza, di garantire la presenza della nuova Provincia nello statuto, sottoscrivendo un patto di sindacato”.
(5) Due commi della finanziaria 207 sono esemplari: 1) Entro un limite di 5 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007-2008-2009, le Province possono riscuotere direttamente l’addizionale sul consumo di energia per potenze impegnate superiore a 200 kw; 2) Viene innalzata l’aliquota massima dell’Imposta Provinciale di Trascrizione dal 20% al 30% della tariffa base